Tutto inizia con una frase entrata nell'immaginario collettivo: "Houston, we have a problem", ovvero "Houston, abbiamo un problema". Poco importa che la frase sia stata riportata erroneamente e che i due astronauti John "Jack" Swigert e Jim Lovell abbiano in realtà detto, uno dopo l'altro, "Ok, Houston, we had a problem here", ovvero "Ok, Houston, abbiamo avuto un problema qui", riferendosi a quello che ancora non sapevano essere stato l'incidente che avrebbe negli istanti successivi cambiato gli esiti della missione. In quel "Houston, we have a problem" è racchiusa tutta la celebrità della missione spaziale probabilmente più nota dopo lo sbarco sulla Luna, ovvero Apollo 13, che proprio oggi, cinquantuno anni fa, ammarava nell'Oceano Pacifico dopo aver tenuto per giorni con il fiato sospeso spettatori da tutto il mondo e riportando a casa sani e salvi i tre astronauti a bordo, il comandante Jim Lovell, il pilota del Modulo di Comando e Servizio Jack Swigert e il pilota del Modulo Lunare Fred Haise.
Torniamo all'inizio del racconto, quando la missione non partì con i migliori auspici: l'onda lunga dell'entusiasmo dell'Apollo 11, infatti, stava scemando rapidamente. Originariamente, dato che erano stati costruiti, da contratto, quindici razzi Saturn V (la NASA non poteva sapere quanti tentativi sarebbero stati necessari per arrivare alla Luna), dopo Apollo 11 ne restavano ancora nove, per un totale di dieci
Quanto ad Apollo 13, i piloti originariamente selezionati erano Jim Lovell (a destra nella foto) nel ruolo di Comandante e Ken Mattingly e Fred Haise (a sinistra) come piloti rispettivamente del Modulo di Comando e Servizio (CSM-109, chiamato Odyssey) e del Modulo Lunare (LEM-7, denominato Aquarius). Due giorni prima della partenza prevista per l'11 aprile 1970, però, i medici scoprirono che il pilota di riserva del LEM, Charles Duke, aveva contratto la rosolia, trasmessagli dal figlio di tre anni di una coppia di amici con cui aveva passato del tempo insieme. Se per Lovell e Haise non fu un problema, dato che entrambi erano immunizzati, si scelse in via precauzionale di tenere a Terra Mattingly e sostituirlo con Jack Swigert (al centro), la sua riserva.
Il decollo avvenne, come previsto, intorno alle due e un quarto del pomeriggio a Cape Canaveral: caricato di carburante extra e pesante oltre quarantacinque tonnellate (fu fino a quel momento l'oggetto più pesante lanciato nello spazio dalla NASA), il Saturn V fu visibilmente più lento a prender quota, ma il lancio non diede particolari problemi, fatta eccezione per lo spegnimento in anticipo di uno dei motori (lì per lì l'evento si risolse senza complicazioni: un'indagine post-volo, però, evidenziò come si sfiorò un guasto catastrofico).
L'obiettivo era raggiungere un cratere chiamato Fra Mauro, che si trova a una latitudine settentrionale della Luna. A cinquantacinque ore di volo era prevista una diretta televisiva: Lovell fece fare una "visita guidata" del veicolo mentre Swigert suscitò ilarità al controllo missione pregando il Presidente Nixon per avere una deroga alla consegna della dichiarazione dei redditi federali, prevista per il 15 aprile, che lui non aveva ancora consegnato (deroga che sarebbe poi arrivata, con la giustificazione che alla scadenza non si trovava nel Paese). I tre non sapevano di non essere in diretta sulle reti nazionali: ormai l'interesse per le missioni era sceso al punto che le emittenti snobbarono il collegamento, al punto che le famiglie degli astronauti stessi poterono assistervi solo dalla sala VIP del controllo missione a Houston.
Presto, però, Apollo 13 sarebbe stata sulla bocca di tutti, e nel peggiore dei modi. Sei minuti dopo la trasmissione televisiva, infatti, il direttore di volo Gene Kranz, in collegamento dal Controllo Missione, chiese di trasmettere a Swigert le istruzioni di attivare gli interruttori di controllo dei sistemi, dato che il sensore di pressione di uno dei serbatoi di ossigeno sembrava funzionare male. Un minuto e mezzo dopo l'attivazione degli interruttori, però, gli astronauti udirono un botto, che fece traballare la navicella. È in quel momento che Swigert prima e Lovell dopo pronunciarono la celebre frase "OK, Houston, we had a problem here", con cui abbiamo iniziato il nostro racconto. Si cominciò a fare ipotesi su cosa fosse successo: si pensò a un impatto con un meteoroide, ma non si registravano perdite significative. Due celle a combustibile alimentate dai serbatoi a ossigeno e idrogeno, però, si scaricarono poco dopo. Uno dei serbatoi risultava vuoto, mentre la pressione di un secondo diminuiva a vista d'occhio. Se da Terra attribuirono a un problema di lettura della strumentazione, Lovell scoprì presto che la situazione era molto più seria di quanto immaginato all'inizio: dal finestrino, infatti, notò che l'Apollo 13 si stava lasciando alle spalle una scia di gas e detriti. Una perdita, quindi, c'era, e anche abbastanza significativa. In quel momento, l'obiettivo smise di essere la Luna: l'unica priorità rimasta era riportare a casa sano e salvo l'equipaggio.
Le criticità erano molte: l'Odyssey, infatti, era stato danneggiato a livello del sistema di alimentazione e, quindi, non si sarebbe riusciti a renderlo nuovamente operativo. Così, i tre si trasferirono nel Modulo Lunare che, da quel momento, sarebbe diventato la loro scialuppa di salvataggio. Il LEM, tuttavia, non era stato progettato con quello scopo: era previsto per portare a bordo due persone per due giorni, mentre ora ne avrebbe dovute portare tre e per il doppio del tempo. Questo comportò un aumento del carico di lavoro per i filtri dell'anidride carbonica, che cominciò a saturare l'ambiente. Per risolvere il problema, dato che i filtri del modulo di comando avevano forma diversa e non erano quindi compatibili, da Terra ci s'ingegnò a fornire agli astronauti le istruzioni per costruirne uno di fortuna che avrebbe riportato a livelli di sicurezza la CO2 nell'abitacolo.
Per riportare la navicella a Terra si scelse di sfruttare una traiettoria circumlunare di ritorno libero, ovvero sfruttando la gravità lunare per ridurre al minimo l'utilizzo dei propulsori: dato che non si sapeva quale fosse l'entità reale dei danni del Modulo di Comando, infatti, si preferì accendere solo il motore di discesa del Modulo Lunare. Due accensioni: la prima per prendere lo slancio necessario, la seconda per una correzione in corsa, manovra questa che suscitò non poche preoccupazioni, dato che era stato concepito per essere attivato una sola volta e quest'eventualità non era mai stata testata. Durante le manovre di sorvolo della faccia nascosta della Luna, Apollo 13 si trovò a una quota di 254 km dalla superficie: in quel momento, i tre astronauti erano a 400.171 km dalla Terra, a oggi la massima distanza dal nostro pianeta raggiunta da un essere umano.
Nonostante l'altissima probabilità che qualcosa andasse storto, tutto funzionò: l'equipaggio riuscì ad atterrare incolume nelle acque del Pacifico, a sud-est delle Samoa Americane, il 17 aprile, dopo un ultimo grande spavento. Quando ci si rese conto, infatti, dell'entità del danno (l'esplosione aveva divelto uno dei pannelli esterni del CSM) si temettero danni alla copertura termica: solitamente, a causa della ionizzazione dell'atmosfera, le comunicazioni radio subivano un black-out di circa quattro minuti, ma per Apollo 13 il silenzio radio ne durò quasi sei, facendo temere il peggio. Poi, però, la navetta riprese il contatto, pochi istanti prima di ammarare. L'equipaggio era incolume, fatta eccezione per Haise, che aveva patito una grave infezione urinaria per la scarsa assunzione d'acqua durante il ritorno.
I tre furono recuperati dalla portaerei USS Iwo Jima, prima di essere portati a Pago Pago, capitale delle Samoa Americane, e alle Hawaii, dove il presidente Nixon li aspettava per conferire loro la più alta onorificenza civile, la Medaglia Presidenziale della Libertà. Lo stesso riconoscimento spettò anche al team che da Houston aveva gestito le operazioni e di cui aveva fatto parte anche Ken Mattingly, l'astronauta "tagliato" per il rischio di aver contratto la rosolia (che in ogni caso non contrasse).
Apollo 13 rappresentò il vero canto del cigno dell'interesse pubblico di massa verso l'esplorazione spaziale: dal momento in cui le problematiche della missione furono divulgate, infatti, i media trasmisero minuto per minuto le difficili procedure di rientro. Da una parte, le vicende misero in luce i grandissimi rischi insiti nell'esplorazione dello spazio. Dall'altra, il rientro degli astronauti sani e salvi a Terra regalò quella che venne definita da più fonti "l'ora più bella della NASA", in quanto celebrò il grande lavoro di squadra e la collaborazione continua tra i vari settori a Terra e l'equipaggio dell'Apollo 13.
Nel 1995 uscì nelle sale il film di Ron Howard, Apollo 13, appunto, che segue passo passo le vicende della missione, il cui cast corale comprende, tra gli altri, Tom Hanks (Lovell), Bill Paxton (Haise), Kevin Bacon (Swigert), Gary Sinise (Ken Mattingly) ed Ed Harris (Gene Kranz).
A. Borgatta
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